Italiani tra invidia e disagio

Sondaggio dell’Alto Adige: italiani più autonomisti, ma anche più delusi.

Tra disagio e imitazione della Svp c’è una terza via: la politica interetnica.

Oltre 30.000 famiglie mistilingui non possono più essere ignorate.

 

Il sondaggio pubblicato oggi dall’Alto Adige dimostra che la comunità di lingua italiana si sente sempre più legata a questa terra e vuole partecipare all’autonomia, che considera un fattore positivo.  Il sondaggio mette in evidenza però anche il forte smarrimento dell’elettorato e la sua sfiducia verso gli attuali rappresentanti politici. E’ un grido d’allarme che deve far riflettere tutti. Deluso e senza precisi riferimenti politici, l’elettorato italiano invoca papà Durni e mamma Svp, più per disperazione che per convinzione. La stessa invocazione di un “partito di raccolta degli italiani” è destinata a restare senza sbocchi: una Sammelpartei nasce solo in condizioni eccezionali e comincia ad andare in crisi perfino nel mondo tedesco. Inoltre, un partito di raccolta italiano sarebbe comunque sempre l’eterno secondo, i suoi membri sempre soci di minoranza di un’autonomia guidata da altri.
 Mi dispiace che tra le domande del sondaggio, oltre alla perdente alternativa tra voto alla Svp e sogni di una “Italienische Volkspartei, non sia stata proposta la terza via della politica interetnica, di una politica fatta in comune tra italiani, tedeschi e ladini, quella che da 30 anni i Verdi-Grüne-Verc praticano non senza qualche risultato.

 Credo che sempre più persone di lingua italiana, inserite perfettamente nella società altoatesina, auspicano questa via d’uscita dall’attuale condominio etnico. Solo una politica interetnica può dare alle persone di lingua italiana una vera casa comune in questa terra, può garantire loro una cittadinanza del 100% e non una ridotta al 24,4% del censimento.

 Solo una politica interetnica può contribuire ad allentare quei meccanismi di conta e di separazione che rendono gli italiani dell’Alto Adige degli eterni secondi, può darci una scuola davvero bilingue e una cittadinanza indivisa, rispettosa dei diritti delle persone più che del gruppo, fondata sui bisogni e sui meriti.

 Solo una politica interetnica, infine, può far uscire dall’ombra quelle oltre 30 mila famiglie mistilingui alle quali mal si adatta lo schema italiani-tedeschi. Si tratta di migliaia di persone plurilingui che con i loro figli e figlie devono diventare la forza trainante dell’Alto Adige del fututo.

 A quest’area plurilingue si uniscono le tantissime persone sia di lingua italiana che di lingua tedesca che ogni giorno attraversano le frontiere delle lingue e delle culture e insieme cercano di costruire un Alto Adige senza barriere. 

Sono convinto che solo una politica interetnica può dare un futuro alla comunità italiana dell’Alto Adige, altrimenti destinata a dibattersi tra “disagio” e invidia verso il mondo tedesco.

 

 

 

 

13 pensieri riguardo “Italiani tra invidia e disagio

  1. Le famiglie mistilingui non devono uscire dall’ombra, sono già al sole!
    “Le tantissime persone sia di lingua italiana che di lingua tedesca che ogni giorno attraversano le frontiere delle lingue e delle culture e insieme cercano di costruire un Alto Adige senza barriere” sono sempre esistite, hanno accompagnato tutta la mia esistenza in Sudtirolo, e sicuramente abbondano anche adesso. Fare finta di non vederle è miopia sociale e politica.

  2. @riccardo

    “Sono convinto che solo una politica interetnica può dare un futuro alla comunità italiana dell’Alto Adige, altrimenti destinata a dibattersi tra “disagio” e invidia verso il mondo tedesco.”

    Quoto e sottoscrivo al 100% !!

    @Bakunin

    Non ho capito se il tuo rimprovero è verso riccardo o la SVP.

  3. @ Bakunin. E’ vero che esistono e sono già al sole, ma nella vita privata, delle amicizie e degli affetti. Nella vita pubblica e sociale sono costantemente negati: non hanno una scuola per i loro figli bilingui (che si annoiano nelle ore di 2a lingua), si devono travestire da solo tedeschi o solo italiani ad ogni occasione, dal censimento al contributo, il loro bilinguismo non dà loro alcun vantaggio, sono praticamente vittime di un’invidia sociale che li tiene sotto per paura che possano assumere la guida del Sudtirolo, come invece dovrebbe essere.

    E questo anche nell’opinione pubblica: tutti i sondaggi, quello dell’Alto Adige compreso, partono dal fatto che uno è o italiano o tedesco o ladino e così sono calibrate le domande, per cui esce sempre che gli italiani si dibattono tra disagio e richiesta di un partito etnico.
    Anche oggi, chi ha intervistato il giornale per interpretare il suo sondaggio? Andrea Zeppa definito in prima pagina “l’italiano” e Hans Kerl Peterlini definito “il tedesco”. In mezzo, se uno legge il giornale, non c’è nulla!
    Un teatro in cui ciascuno deve mettersi una maschera che non gli appartiene.

  4. Seppur cresciuto dalla parte italiana della barricata, il nascere e il vivere in Sudtirolo (e scrivendo Sudtirolo non mi trema la mano) hanno fatto si che anche lingua e cultura tedesca divenissero parte integrante della mia identita’, e questo a dispetto dell’educazione ricevuta in un sistema scolastico rigorosamente compartimentato.

    Questa condizione di fondo mi ha reso facile, nel corso degli anni, acquisire gli strumenti culturali ed espressivi anche della lingua inglese che poi tra lavoro, studio e interessi personali e’ divenuta anch’essa un modus comunicativo. Leggo libri, interagisco e utilizzo media in tutte e tre le lingue e, strano a dirsi, non mi sono mai stati diagnosticati disturbi dissociativi dell’indentita’.

    Nel corso degli anni, poi, ho vissuto occasonali esperienze professionali in realta’ internazionali tra balcani e medio oriente che mi hanno aiutato a considerare la realta’ altoatesina da altre prospettive.

    Realta’ diverse – soprattutto afflitte da problemi di ben altra caratura che non l’imprecisa traduzione del bugiardino nella confezione di aspirina – aiutano a cogliere in tutta la loro trasparenza l’anacronismo e l’inadeguatezza di una classe politica disperatamente artigliata ai non-problemi, dietro ai quali nascondere nulla piu’ che strategie di potere per il controllo di un tessuto sociale intossicato da quegli effetti collaterali che affliggono ogni organizzazione umana, quando lo scopo dichiarato arriva a discotarsi in maniera significativa da quello perseguito.

    Ho compreso come il privilegio di appartenere a questa regione – che ha rappresentato per me un opportunita’ non comune sul piano della competenza linguistica, arricchimento culturale e, come passo ulteriore, di apertura mentale – sia pronto a essere affidato alla memoria di pochi sopravvissuti.

    Se fino ai primi anni ’90, infatti, il vivere qui rendeva positivamente “diversi” (quanti fuori dal Sudtirolo conoscevano il tedesco allora?), alle generazioni nuove oggi basta un erasmus qualsiasi – o qualsiasi altra opportunita’ di viaggio-studio che oggi non e’ piu’ esclusiva di pochi benestanti – per completare un ciclo di immersione linguistica che a palazzo Widmann causerebbe attacchi di timor panico.

    E tanti ne ho conosciuti, italiani “d’Italia” che senza ragione apparente hanno scelto di inserire il tedesco nella loro vita, come quel professore di lingua italiana a Bologna appassionato dell’Alto Adige che mi fece scoprire la bellezza e il significato storico della vicenda di Andreas Hofer oltre l’apologetica locale (per me fu invece imbarazzante dover spiegare perche’ non la conoscevo cosi bene e che a scuola, a Bolzano, nella patria di Hofer, nessuno si era preso il tempo di inserirla nel curriculum di studi).

    Credo che le barriere politiche (perche’ solo di questo si tratta) saranno aggirate solo sul piano individuale (penso soprattutto agli italiani perche’ questa e’ la parte che conosco meglio), lasciando la strada affollata del pensiero dominante, del “noi/loro”, risolvendo i blocchi mentali e sciogliendo il timore di perdere qualcosa se si accetta che, per noi nati qui, il “Tirolo” ha sempre fatto parte delle nostre vite.

  5. Ma si che esistiamo, noi (famiglie) mistilingue, es gibt uns!
    Vielleicht immer schon, mag sein. Aber was neu ist, ist das entstehende selbstbewusstsein unter uns. Ich hab das ganz anders erlebt, als ich klein war (in den 70er jahren) – da wurden die mischehen (damals hießen sie so) als zersetzung des volkskörpers gesehen.
    Die hat an walschen geheiratet, hieß es damals, wenn so was in der nachbarschaft passierte. Traurige blicke unter den erwachsenen, missbilligung, mitgefühl mit den armen brauteltern, die nun mit walschen enkelkindern rechnen mussten, mit der befana, die eintritt halten würde in die familie und mit dem panettone neben den spitzbuben….
    Damals waren kinder, die aus diesen verbindungen hervor gingen, tatsächlich die sfigati des augenblicks. Nicht-fleisch-nicht-fisch, und allgemein belächelt ob der vermuteten doppelten halbsprachigkeit.
    Es hat sich etwas verändert in südtirol seitdem. Vielleicht sind die brauteltern immer noch zufriedener, wenns nicht ein walscher ist, sondern ein „dàiger“ – aber wenn man dann die kinder heran wachsen sieht, dann staunen doch auch eingefleischte „mutterlsprachlerInnen“. Es ist nämlich phantastisch, dem kreativen und natürlichen umgang mit 2 sprachen beizuwohnen, den unsere mischehekinder an den tag legen. Das macht sie zu den bambini privilegiati, als die sie interessanterweise heute allgemein angesehen werden. Da liegt doch ein gewaltiger schritt dazwischen, nicht?
    Es ist ein schritt in die von alex langer gewiesene richtung, es ist die umsetzung seines interethnischen diskurses, dessen konkretisierung in unseren kindern.
    In diesem sinne freut es mich zutiefst, einer vorausgesagten utopie anzugehören. Das passiert einem nicht oft im leben.

  6. Ognuno di noi è una persona multilingue!
    Scrivo da un’altra terra, quella nella quale sono nata e tuttora vivo, sebbene abbia cambiato città. Se penso alle mie origini, ai nonni, ai bisnonni fino a dove mi posso spingere nella ricostruzione, ci sono molte radici alle mie spalle; persone che si sono incontrate, hanno mescolato i linguaggi (che vuol dire in questo caso le abitudini del proprio nucleo di origine, le credenze e i valori condivisi) e dei conflitti mai risolti che ne sono scaturiti porto, come tutti noi, le tracce.
    I conflitti sono legati all’esistenza stessa della differenza (la lingua non è che una tra le tante possibili) e non si superano: si attraversano, si elaborano, si impara a conviverci, si sceglie, infine, di inasprirli oppure di trasformarli in tensione al dialogo. Cioè in voglia di capirsi, sapendo che non sarà mai possibile del tutto, ma che siamo disposti a provarci. E che questo è il sale stesso della vita.
    Scrivo da un’altra terra e la vostra, Riccardo, la conosco solo per le impressioni di chi ci resta di tanto in tanto qualche giorno e molto di più attraverso ciò che tu, nel tempo, mi hai raccontato.
    Scrivo da un’altra terra, eppure leggo con molto interesse post e commenti di questo blog e spesso vorrei intervenire, ma il più delle volte non lo faccio e mi limito agli argomenti che appaiono maggiormente trasversali all’appartenenza territoriale. Temo mi si venga rimproverato di parlare da esterna, e mi si dica che non ne ho il diritto (o lo si pensi). Come quando si dice a una persona senza figli che non può parlare di genitorialità. O a un uomo che non può parlare della condizione di noi donne. O, in altri tempi, a uno studente di famiglia benestante che non può parlare di povertà. Le lingue diverse sono anche questo; una malintesa idea di appartenenza legata non alla terra (insieme di tradizioni e storia e cultura), ma al SUOLO, ai confini, alle categorizzazioni rassicuranti.
    Leggo con interesse questo blog anche perché parla di confini e io amo collocarmi sui confini, piuttosto che al centro. Danno modo di vedere di più e meglio, di lasciare spazio al dubbio e alla critica, di sentirsi un po’ meno sicuri e un po’ più inquieti: ma proprio per questo più curiosi e disposti ad ascoltare. Come sarebbe noioso un mondo monolingue (e non mi riferisco solo alle parole, ma anche ai modi di essere, alle storie…), fatto magari, per correre ancora meno rischi, di persone di un unico sesso, partecipi di una medesima identica storia, in cui ci si aggregasse solo per gruppi della stessa età, o dello stesso mestiere, o dello stesso titolo di studio, o dello stesso censo!
    Mi interessano i confini e mi interessa il confronto e la convivenza tra linguaggi perché sono una studiosa di questioni educative e quello del multilinguismo, inteso in senso metaforico e non solo concretamente ancorato al tedesco-italiano, è il problema centrale di ogni processo formativo: imparare ad attraversare con un po’ meno paura e molta più curiosità la propria differenza rispetto agli altri, ma anche quella che dentro ciascuno di noi deriva dai nostri stessi conflitti interni.
    La lingua (tedesco-italiano in questo caso) rappresenta solo uno degli aspetti che definiscono l’identità in termini di differenza rispetto agli altri; se abbiamo paura persino di questa tensione al dialogo intesa come reciproca (e parziale) traducibilità delle parole, che ne sarà della nostra capacità di confrontarci con chi ancor più diversamente è lontano dal nostro modo di essere? E come potremo coltivare, insegnare, praticare la solidarietà reciproca, legata, al di là di lingue e confini, alla comune condizione dell’essere uomini?

  7. @Sergio: ovviamente era un rimprovero verso l’ SVP…e chiunque, come dice Riccardo, non vede il cambiamento socioculturale degli ultimi 60 anni. Non potrò viverlo, ma sono sicuro che tra un secolo saranno tutti “mistilingue”, non necessariamente italiano/tedesco/ladino, ma con l’aggiunta di una mezza dozzina di altri idiomi. I”monolingua” saranno spariti dalla politica e sopravviveranno in piccole enclavi.

  8. @ Pervasion. Guarda, sull’idea dell’autodeterminazione (da chiunque sia condivisa), io la mia l’ho già detta al convegno degli Schützen a Lana, che puoi leggere in questo blog qui: https://riccardodellosbarba.wordpress.com/2008/04/08/freistaat-sudtirol/
    Detto più semplicemente, è una questione di prioritä: io credo che la cosa più importante in questa fase non sia l’autodeterminazione del Sudtirolo (inteso come piccolo stato) ma l’autodeterminazione dei sudtirolesi (intesi come cittadine e cittadini sottoposti a un monopolio del potere). Se in uno stato libero del Sudtirolo a comandare sono sempre i soliti, non cambia poi molto.
    Il tema autodeterminazione sì o no mi pare francamente secondario. E che lo condividano o no gli italiani, mi pare secondario al quadrato.
    Non discuterei di confini statali, ma di come farli scomparire. Quel che verrà tra 50 anni non lo so, mi interessa di più quel che succederà nei prossimi 5.

  9. “mi interessa di più quel che succederà nei prossimi 5.”

    Questa è una mancanza di visioni davvero paurosa. È l’ammissione esplicita che un politico non pensa oltre il suo proprio interesse personale, quello di una legislatura.

    “Se in uno stato libero del Sudtirolo a comandare sono sempre i soliti, non cambia poi molto.”

    – Lei pensa veramente che in uno stato libero (in generale, ed a maggior ragione se perseguito nella maniera proposta da bbd) potrebbero comandare sempre i soliti? Che esisterebbe ancora il collante etnico? La paura dell’assimilazione?

    – Non avete mai pensato (come Verdi), che si possa intendere il progetto in chiave (pro)positiva, per cambiare lo status quo? Che le limitazioni (forti limitazioni!) di un’autonomia etnica si possano modificare solo in una dinamica al rialzo? Che avendo qui da noi le competenze per darci le regole che vogliamo, potremmo agire in maniera più dinamica? Che lo staccamento dallo stato nazionale ci permetterebbe di percorrere strade completamente nuove nella convivenza tra persone (e non etnie)?

    – Quando mai i Sudtirolesi “di minoranza”, tedeschi e ladini, accetterebbero di costruire una società davvero diversa, plurilingue e coesa, finché sussiste lo spettro (percepito o reale) dell’assimilazione? Credete davvero di poter cambiare il modello autonomistico attuale dal suo interno, cosa peraltro fallita negli ultimi decenni?

    – E qualora nonostante tutto si giungesse ad un referendum, auspicata dal 41% dei cittadini di lingua italiana, e probabilmente da una percentuale ancora più elevata dei cittadini di lingua tedesca, sarebbe intelligente trovarsi impreparati, senza un progetto? Oppure i Verdi, fautori della Basisdemokratie, continueranno affermare che un referendum “sulle basi” del nostro impianto autonomistico, sull’appartenenza a questo Stato, non s’ha da fà?

  10. @bakunin

    io credo che il futuro sarà invece necessariamente monolingue, e non solo in alto adige ovviamente. Il mantenimento di tante lingue ufficiali (come avviene ad es. nella comunità europea) ha dei costi e porta con sé problematiche enormi ed economicamente assolutamente insostenibili. La globalizzazione, processo ormai inarrestabile, condurrà necessariamente all’introduzione di una sola lingua comune. Tale lingua “franca” di fatto già esiste in molti ambiti (scientifico, commerciale) ed è l’inglese. Fra 100 anni (almeno 3 generazioni) penso che tutti, pena l’isolamento, parleranno l’inglese e le lingue locali, laddove sopravviveranno, saranno sempre più relegate al rango di dialetto.
    Non che la cosa mi spaventi, anzi, forse con una sola lingua uguale per tutti ci sarà un pretesto in meno per litigare.

  11. @ Brennerbasisdemokratie.
    1. I confini interni all’Unione Europea si sono affievoliti. Basta vedere il Brennero negli ultimi 20 anni. Prima ti fermavano col mitra spianato, oggi passi via senza problemi, scendi a Innsbruck e paghi in euro, ti muovi indifferentemente in tutta Europa senza più farci caso. Questo è un fatto. E’ una tendenza che può progredire o può regredire. Io sono perché progredisca e per gettare tutte le energie in questa direzione.

    2. Come mi immagino l’Europa tra 100 anni. Come un continente dove vi siano regioni disegnate in modo diverso da quelle nazioni nate tra il 1400 e il 1800, sulla base dell’idea nazionale: un popolo, una lingua, un esercito, una bandiera. Ci sono altre “differenze” che potrebbero farsi regione. Per esempio quelle ecologiche.
    Io sogno che le Alpi diventino una euroregione non etnico-nazionale, ma ecologico-interetnica, unificata dalla delicatezza della natura e dalla specifica interazione culturale tra essere umano e ambiente che si è formata nei secoli e ora si trova di fronte a scelte drastiche nella propria sopravvivenza.
    Il discorso sarebbe lungo, ma quello che vorrei chiarire è ciò che mi distingue dai ragionamenti, pur interessanti, della piattaforma Brennerbasisdemokratie. E cioè: questa piattaforma gira e rigira i vecchi ingredienti della nazione, scomponendoli e ricomponendoli con ottime intenzione, ma il problema è che gli ingredienti sono sempre quelli. Io penso che bisogna provare a guardare le cose cambiando prospettiva. E invece di chiudersi nel libero stato del Sudtirolo, aprirsi per esempio all’idea di una eco-euro-regione delle Alpi di cui la Convenzione delle Alpi potrebbe essere considerata la prima bozza di Carta costituzionale.

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